Come reinventare un paese: l’ex-Mattatoio, un contenitore per l’arte.

 

Il percorso silenzioso nel mondo della ruggine.

di Angelica Pedatella

 

“La Fabbrica della Ruggine” è un edificio di idee.

Alcune di esse sembrano vagamente classiche, altre polemiche, altre ancora originalmente estrose…

“La Fabbrica della Ruggine” è un modo di espressione che poco si cura di luoghi deputati e di amatori scelti. Parla ovunque e  con chiunque… Così, anche in un piccolo paese della Calabria, anche in situazioni in cui sembrerebbe che l’arte sia l’ultimo dei pensieri, trova spazio e applauso tra la gente. E mostra che ogni luogo è quello adatto a comunicare e ad esprimere… Le idee soprattutto!!

Si cammina, in una serata di fine estate a Cleto, tra le idee.. E’ un percorso quasi magico. E’ un rito.. Si entra con la testa vuota e con gli occhi già ammirati. E gli artisti sottolineano con la disposizione delle loro opere quest’Idea.

Così l’opera di Enrico Meo, all’ex-Mattatoio – poi ricostruito e aggiornato da un architetto originale – introduce il visitatore in un grappolo di segni e messaggi antichissimi che costringono a modificare il passo, a deviare, a riflettere su ciò che impedisce il procedere diritto. I triangoli di Meo sono simbolo antico di origine greca – poi ereditato dall’esoterismo – metafora del mistero che circonda il mondo. L’opera è costruita di terra, aria, fuoco, acqua, i principi empedoclei della creazione e della vita. Al centro del triangolo un piede umano, il passo che conduce l’uomo per un mondo che non è solo fisicità (come sottintenderebbero i “cinque sensi” appesi lì accanto al muro e significativamente rappresentati sotto forma di triangoli tattili) ma è innanzitutto spiritualità, mistero, infinito universo di segni.

Così la lunga sequenza di fisculi – sequenza di universi tutti uguali ed eternamente ripetentisi – fermi nel loro centro dall’immagine di un anziano dallo sguardo pieno di cose e i capelli bianchissimi. Egli rappresenta un mondo fermo nei suoi significati, un mondo che trova il centro nella tradizione, nel simbolo, nella memoria che tiene l’unità delle cose, che crea mondi, che assicura la continuità.

Un’opera densa, dunque, di valori vicini alla cultura calabrese, alla cultura millenaria dei paesi mediterranei, dove i segni si organizzano, si dividono, e parlano con un ritmo lento e marcato.

Ma non solo…! I Segni si rincorrono anche, corrono, vorticano.

Così nel locale parallelo, diviso da un muro, l’universo non è una sequenza che perpetua la memoria, non ha un ritmo lento di canzone antica, ma segni primitivi e originali che spingono e costringono l’andatura del visitatore a cambiare ancora una volta la direzione del passo che ora gira. L’universo di Yari Sacco è un’enorme spirale che attira in sé tutte le manifestazioni di vita, dall’originario caos alla creazione dell’uomo, dall’unione d’amore degli esseri alla fondazione della società, al ciclo dell’esistenza che si completa con la morte e il trapasso.

I segni questa volta si rimescolano, con lo scopo però di non creare rumore, ma silenzio. Il video che l’artista proietta sulla parete bianca mostra luci, ombre, sensazioni visive avvolte di silenzio che non inducono lo spettatore al commento momentaneo di chiunque creda di comprendere e voglia sentenziare, ma lo guidano a restare immobile in un unico pensiero mentre le immagini scorrono.

L’opera è fatta di terra e pietre, di nero e di bianco, che fa pensare subito al lavoro manuale. L’artista, nel cercare l’universo, lo lavora con le mani, non sta aristocraticamente appollaiato sul suo sgabello ad osservare dall’alto, ma scende, si siede per terra, scorre con le mani la materia e lavora.

Anche questo affascina di queste opere e ne fa espressione di arte!

Il lavoro manuale comporta il silenzio e la concentrazione. Attraverso questo mezzo speciale – il silenzio – le opere degli artisti si riempiono di significato e portano a considerazioni, a riflessioni, a critica.

Solo il silenzio, sottolinea Alexander Buchberger nel suo spazio colorato di immagini, ci fa vedere realmente quel che ci passa sotto gli occhi nella noia del quotidiano. In sottofondo il ritmo regolare della musica classica.

Allo spettatore stavolta appaiono immagini conosciute, risapute anzi, ma per una volta tanto più significative del solito: in due stanze immagini che si riflettono attraverso le grate bianche di finestre invisibili che rappresentano la separazione e il distacco da ciò che si sta guardando. Ancora una volta non si richiede al visitatore la partecipazione immediata ed emotiva a ciò che si passa lì davanti, ma gli si chiede di guardare soltanto con la mente ferma. Poi di riflettere.

La chiave per la saggezza sta nel silenzio” scrive a lettere cubitali sotto la prima delle sue immagini l’artista. Quello che colpisce maggiormente è come le immagini che egli mette insieme siano così vicine al nostro vissuto quotidiano e contemporaneamente così lontane da noi; così il piatto di spaghetti invaso da soldatini davanti alle immagini crude di un telegiornale che manda in onda il bombardamento dell’Iraq; così un innocuo gioco di guerra di bambini alle cui facce sono sostituite con un semplice e volutamente rudimentale fotomontaggio la faccia di Bush e quelle di tante pecore disegnate; o i “teneri” cagnolini della Carica dei 101 famelici (però) intorno una porzione di bucatini gustosi…

E il tema drammatico della guerra non poteva mancare in una mostra che propone il mondo così com’è, con la sua sofferenza e la sua “ruggine”.

Il video delle drammatiche immagini girate nel paese di guerra di Camilla Thompson in De Martino è proiettato proprio nella stanza di fronte. Così il mondo colorato della contemporaneità usa le tecnologie della fotografia per lasciarsi rappresentare.

Di nuovo però il significato è più profondo. La fotografia è sequenza di immagini. Ma come il mondo per i primi artisti citati è lavoro con la terra e con gli elementi che induce il pensiero al senso di un moto lentissimo, così anche per questi ultimi il ritmo rappresenta un elemento fondamentale e la fotografia può andar veloce o scomporsi in immagini e fotogrammi che immobilizzano e fermano il tempo o lo scansionano con una matematica ferrea. “L’importante che tutto dopo sia in ordine” di Pedrito Bonavita rappresenta la serie di immagini di distruzione ordinata cui la logica sociale abitua da tempo ormai.

Costruita su due livelli, la serie di fotogrammi in bianco e nero rappresenta sul primo livello lo schema preciso di un cranio umano, con la specificazione delle varie ossa, e sul secondo livello il meccanismo del funzionamento di una bomba. La cadenza regolare delle immagini fa pensare a delle lapidi e i ceri accesi ai piedi della parete creano quello stridere forte che c’è tra l’intimità della luce di una candela e il freddo chiarore della carta stampata in bianco e nero dei documenti.

L’artista rappresenta un mondo di ordine silenzioso che non dà però serenità, ma induce al senso di caos e di distruzione. Tra la freddezza delle sequenze di Bonavita e il silenzio critico delle immagini di Buchberger in una stanza, quasi lo stanzino di questo mondo corroso, c’è l’accumulo di segni e immagini e di oggetti di espressione e di strumenti di comunicazione affastellati gli uni sugli altri, distrutti a vicenda. I manichini di belle donne mozzi e gettati gli uni sugli altri sono i segni tangibili di un’umanità rotta; titolo di quest’opera è “Violenza multimediale”, di Alan Curto.

Il percorso è chiaro e scandito meticolosamente.

Poi la stanza dell’artista Franco Magli: idoli e immagini, scultura e pittura insieme. Bocche e visi orientali e chiusi nel silenzio di terracotta. Camicie raggrinzite annerite o colorate e scolpite in un quadro; sono immagini fantastiche e ironiche a metà tra il pennello e lo scalpello: alludono e mostrano il lavoro manuale dell’artista e contemporaneamente la faccia del mondo drammatico che la Fabbrica della Ruggine (la cui scritta a caratteri cubitali sul complesso si deve proprio a Magli) rappresenta. Egli mostra nelle sue creazioni che l’arte è non solo un mezzo di comunicazione di messaggi drammatici o ironici, ma che è soprattutto creazione con la “C” maiuscola, lavoro artigiano dell’artista che si perpetua nei millenni attraverso le attività manifatturiere e contadine, attraverso gli istinti primari e le emozioni immediate che i materiali suggeriscono e le mani formano. Le finestre immense del pomeriggio assolato proiettano l’intensa luce del sole sulla terracotta accentuandone le forme plastiche e lo spettatore rimane a guardare incuriosito quelle forme artigiane immerse in libri di cultura, quelli che fanno parte del patrimonio intellettuale di ognuno. Allegoria di noi stessi.

Al centro del complesso, visibile attraverso la parete di vetro, si ripropone ancora l’arte come creazione pura, come natura. L’opera di Massimiliano Marchese è fatta di elementi, quasi sgombri da significati culturali e sociali stringenti.

Rappresenta, in mezzo alle altre, semplicemente l’esistenza, primaria così com’è.

In mezzo a quest’opera ci si passa. Si guarda un po’ di qua un po’ di là. Lo stato d’animo è diverso. Più sereno.

E l’opera ha dell’ironia, infatti!

Da una parte un quadrato ben delimitato, pieno di polvere bianchissima con tre uova colorate (rosso primario, blu, giallo) ben disposte geometricamente a triangolo. Sono i colori primari, elementi primi dell’arte pittorica, rappresentazione di una realtà leggera, disegnata e colorata appunto.

Dall’altra parte la composizione dei colori: la natura. Giallo sono fili intricati (ma quasi spaghetti: ironia d’artista!!) sotto un tronco, terra fatta di radici che nutre. Il giallo si mescola col blu, terra e aria: il tronco. Rosso è la linfa che anima il tronco: la vita. Non ha niente di drammatico questa macchia rossa che ad alcuni sembra sangue. No. E’ un colore ed è leggero.

Di fronte, in un mortaio di pietra, farina bianchissima simboleggia il nutrimento che dà la terra e determina la vita dell’esistente ed è simbolo del ciclo naturale.

 

Così, all’ex-Mattatoio di Cleto, museo per una sera, il mondo comincia dagli elementi primari, scopre il mistero di se stesso, mostra la ruggine del suo essere e del suo fare e finisce con questo sorridente scherzo di colori: in fondo, questa è la vita… Uno scherzo!!